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Mi fido di lei - Le parole di Giovanni Falcone
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Mi fido di lei - Le parole di Giovanni Falcone

Author: Corriere della Sera

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Description

A trent'anni dalla strage di Capaci, Corriere della Sera realizza con Fondazione con il sud un podcast in 5 puntate scritto da Luca Lancise e Alessandra Coppola. Partendo dal dattiloscritto originale dei 22 pranzi tra Giovanni Falcone e Marcelle Padovani (autrice di "Cose di Cosa Nostra"), il podcast ricostruisce, con le parole stesse di Falcone, la sua capacità di decifrare la mafia, di comprenderla a fondo come uomo e siciliano per poterla lucidamente combattere. Racconta la sua eredità, per lo Stato e le nuove generazioni, attraverso il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi.
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Segui gli assegni: Giovanni Falcone ne è ossessionato, i colleghi lo deridono e non comprendono. "Passava delle notti intere anche a casa sua con pacchi interi - ricorda la giornalista amica Marcelle Padovani - numerati, con le date, con il destinatario, la banca d'origine". Compilava schede precise su ognuno di questi pezzi di carta. Un assegno in particolare, nel 1984, lo conduce da Palermo a una Banca di Terzigno, Napoli, quindi di nuovo in Sicilia nel mezzo dei rilievi delle Madonie. Un passaggio di soldi che testimonia il legame della mafia con la camorra dei Nuvoletta; ma soprattutto concretamente dimostra come il Papa di Cosa Nostra, Michele Greco, sia entrato illecitamente in possesso del feudo di Verbumcaudo. Ci sono volute due leggi e oltre quarant' anni, ma quel bene oggi è confiscato e riutilizzato. Per la quinta e ultima puntata di "MI fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone" ci siamo messi sulla scia di quell'assegno per andare a vedere a che cosa è nato dall'esempio del giudice: dove c'era il terreno di un boss, ci sono adesso 11 ragazzi siciliani che coltivano i pomodori senza acqua, trebbiano il grano per farne pasta, sperimentano vendemmie di Catarratto. Testimoni del Paese diverso che aveva immaginato Falcone.
I corleonesi hanno il controllo di Cosa Nostra, dunque di una buona fetta della Sicilia. Ma a Palermo, lo Stato sta preparando il suo attacco più forte e concreto: sulla base della sentenza-ordinanza del giudice istruttore Giovanni Falcone (assieme al collega Paolo Borsellino), il 16 dicembre 1987 la Corte d’Assise condanna 346 imputati per un totale di 2665 anni di reclusione. “E’ il primo grande processo contro la mafia!” sottolinea Marcelle Padovani. La giornalista francese è tornata sull’isola, gira un reportage, scrive di nuovo un articolo sul giudice “illuminista” che le sta diventando amico. E ancora una volta ne sottolinea “la solitudine”, in particolare dopo il fallito attentato alla casa di vacanza all’Addaura. Il clima per il magistrato è pessimo, non solo per le minacce di Cosa Nostra, ma soprattutto per i veleni interni alla procura, per le allusioni e le insinuazioni che gli rendono il lavoro impossibile. Falcone accetta  il trasferimento a Roma come direttore degli Affari penali al ministero di Giustizia. Ed è in questo contesto di lontananza e isolamento che la mafia mette a punto la sua vendetta: la strage di Capaci, 23 maggio 1992. L’ultima volta che Marcelle lo incontra lui le confessa che tornare in Sicilia è pericoloso: “Ma ho voglia di rivedere la pesca del tonno…”. All’indomani dei funerali, Padovani scrive il suo ultimo servizio su Falcone: “La mort en face”. “Mi sono detta, devo raccontarlo così come l’ho conosciuto; la morte per lui non era un argomento estraneo”. E a Palermo chi ci resta? “Si è istituita una rete di solidarietà, di amicizia, di comune credo negli stessi ideali – sono parole di Falcone -, che sicuramente prescinde dalla mia persona. E che non sarà disperso…”
E’ la più equivocata e manipolata delle intuizioni di Falcone: «I mafiosi non sono dei marziani; la mafia non è estranea al tessuto sociale che la esprime». L’unica via per combattere Cosa Nostra, rivendica il giudice, e Marcelle se ne fa interprete, è dunque svelare questa affinità. Riconoscere la razionalità e la logica rigorosa che la caratterizza, capire che funziona al suo interno in base a un sistema di regole e leggi, come se fosse uno Stato, e che si fonda, paradossalmente, su dei valori: il rispetto, la dignità, l’obbligo di dire la verità. Attinti dalle radici siciliane e portati alle estreme, feroci conseguenze. Così Falcone, senza mai perdere la prospettiva dell’uomo di legge, arriva a immedesimarsi nell’uomo d’onore, e non esita a condividere con Marcelle la sua convinzione più radicale: “Se vogliamo combattere efficacemente, la mafia dobbiamo riconoscere che ci assomiglia”. Questa rivelazione arriva al magistrato dall’intensa relazione con i pentiti, in primis Tommaso Buscetta, ma anche Francesco Marino Mannoia e Antonino Calderone. Del pentimento di Calderone racconta il giudice francese Michel Debacq, già capo dell’antiterrorismo, collaboratore di Falcone da Marsiglia, che ricorda come fu agganciato dalla moglie del mafioso e svela il ruolo inaspettato di Buscetta da mediatore: “Con Falcone puoi parlare, perché di Falcone ti puoi fidare”.
Il primo incontro tra Marcelle Padovani e Giovanni Falcone avviene a Palermo, alla fine del 1983, in piena guerra di mafia. Il magistrato è poco noto in Italia, ma in Sicilia conduce giàinchieste innovative e «pericolose». Padovani ne ha l’immagine di un uomo senza paura pur se consapevole dei rischi, che si affaccia alla finestra al mattino per controllare la via di casa e passa la giornata, fino a sera, solitario in un ufficio del Palazzo di Giustizia protetto da due porte blindate e da telecamere che è egli stesso a comandare. I magistrati che lo hanno preceduto sono caduti tutti in pochi anni sotto i colpi di Cosa Nostra, come i poliziotti che lo affiancavano nelle indagini: Falcone è rimasto l’unico oquasi a portare avanti un nuovo metodo di lotta alla mafia in cui a Palermo nessuno sembra credere. Da questo incontro, che getta le basi della fiducia reciproca, nasce il titolo del primo articolo consacrato da Padovani a Falcone: «Le petit juge et la mafia», un piccolo giudice che sfida un grande nemico. Del clima di accerchiamento e tensione, in una Palermo sconvolta dall’assedio dei Corleonesi, è testimone il fotografo Franco Zecchin, dalla fine degli anni Settanta fino ai primi Novanta compagno e collaboratore di Letizia Battaglia, con la quale ha documentato la mattanza palermitana scrivendo la storia del fotogiornalismo
Il primo incontro tra Marcelle Padovani e Giovanni Falcone avviene a Palermo, alla fine del 1983, in piena guerra di mafia. Il magistrato è poco noto in Italia, ma in Sicilia conduce giàinchieste innovative e «pericolose». Padovani ne ha l’immagine di un uomo senza paura pur se consapevole dei rischi, che si affaccia alla finestra al mattino per controllare la via di casa e passa la giornata, fino a sera, solitario in un ufficio del Palazzo di Giustizia protetto da due porte blindate e da telecamere che è egli stesso a comandare. I magistrati che lo hanno preceduto sono caduti tutti in pochi anni sotto i colpi di Cosa Nostra, come i poliziotti che lo affiancavano nelle indagini: Falcone è rimasto l’unico oquasi a portare avanti un nuovo metodo di lotta alla mafia in cui a Palermo nessuno sembra credere. Da questo incontro, che getta le basi della fiducia reciproca, nasce il titolo del primo articolo consacrato da Padovani a Falcone: «Le petit juge et la mafia», un piccolo giudice che sfida un grande nemico. Del clima di accerchiamento e tensione, in una Palermo sconvolta dall’assedio dei Corleonesi, è testimone il fotografo Franco Zecchin, dalla fine degli anni Settanta fino ai primi Novanta compagno e collaboratore di Letizia Battaglia, con la quale ha documentato la mattanza palermitana scrivendo la storia del fotogiornalismo
Sepolto sotto libri e ritagli, Marcelle Padovani ritrova nella sua casa romana il dattiloscritto originale di “Cose di Cosa nostra”. È il libro divenuto suo malgrado il testamento di Giovanni Falcone, scritto in prima persona dal giudice anti-mafia, in realtà composto dalla giornalista francese Padovani attingendo a otto anni di assidue frequentazioni siciliane, fino ai 22 lunghi pranzi intervista nel 1991 nella capitale. Accanto al testo francese, Falcone ha annotato a penna, in corsivo, in italiano piccole osservazioni che rendono il suo rigore, la mancanza di protagonismo, il rispetto per le parole e i fatti. Comincia così una ricostruzione approfondita e intensa di uno dei grandi protagonisti della storia italiana, accompagnata dalla sua stessa voce e dai ricordi di Padovani, dagli inizi fino al suo lascito.
Puntata 1. Le correzioni. Sepolto sotto libri e ritagli, Marcelle Padovani ritrova nella sua casa romana il dattiloscritto originale di “Cose di Cosa nostra”. È il libro divenuto suo malgrado il testamento di Giovanni Falcone, scritto in prima persona dal giudice anti-mafia, in realtà composto dalla giornalista francese Padovani attingendo a otto anni di assidue frequentazioni siciliane, fino ai 22 lunghi pranzi intervista nel 1991 nella capitale. Accanto al testo francese, Falcone ha annotato a penna, in corsivo, in italiano piccole osservazioni che rendono il suo rigore, la mancanza di protagonismo, il rispetto per le parole e i fatti. Comincia così una ricostruzione approfondita e intensa di uno dei grandi protagonisti della storia italiana, accompagnata dalla sua stessa voce e dai ricordi di Padovani, dagli inizi fino al suo lascito.
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